Venerdì 30 Maggio 2025 – Chiesa San Nicolò – ore 21.00

INGRESSO 10€
RIDOTTO 5€ (allievi della scuola e minori di 14 anni)
Gianluca Luisi è considerato dalla critica internazionale (Potsdamer Nachrichten , Fanfare , New York Concert reviews at Carnegie Hall, Musica, American Record Guide) uno dei migliori pianisti italiani del nostro tempo.
I suoi concerti hanno riscosso entusiastici consensi dal pubblico di ogni parte del mondo.
Si è esibito in sale prestigiose come ad esempio: La Maison Symphonique di Montreal , Canada, la Toyota Concert Hall e Nagoya Concert Hall, Giappone , lo Shenzhen Grand Theater e la New Shanghai Symphony Hall, Cina, il Nuovo Auditorium di Milano e Teatro San Carlo (Italia) , la Mozart Saal (Stuttgart Bachakademie), la Max Reger Halle e Walter Gieseking Hall, Germania, la Szymanowski Concert Hall, Katowice (Polonia), nel Bauman Auditorium di Portland, Rosa Center Lower College, USA ed è stato invitato a tenere concerti per istituzioni storiche come ad esempio: la Carnegie Hall (New York ), il Musikverein (Vienna) , lo Schleswig Holstein Musik Festival (Amburgo), il Festival di Husum (rarità della musica pianistica), le Bachtage a Potsdam (Berlino) ed altre.
Gianluca Luisi ha studiato con Franco Scala al Conservatorio di Pesaro e con il pianista italo-francese Aldo Ciccolini a Parigi e Napoli.
E’ risultato vincitore di numerosi concorsi tra cui il primo premio del 4°Concorso Internazionale J.S.Bach di Saarbrucken-Wurtzburg , Germania, ed è stato acclamato dalla critica tedesca come un nuovo interprete di J.S.Bach.
Ha eseguito a memoria cicli difficili come il Clavicembalo ben temperato di J. S. Bach presso le Bachtage di Potsdam a Berlino in due serate ed incise per la Centaurrecords e le sinfonie di Beethoven Liszt con il collega Konstantin Scherbakov. Nel suo recente repertorio spicca l’integrale delle suite francesi ed inglesi eseguiti a memoria per il Festival “Armonie della Sera “ così come i 5 concerti di L.V. Beethoven per pf. ed orchestra , i concerti di Rachmaninov 1,2 e 3 ed i due concerti di F.Chopin ( mi minore e fa minore). Attualmente esegue l’integrale chopiniana ( quest’anno sono previste esecuzioni in concerto degli Scherzi, Ballate, Studi e Preludi).
Ha collaborato con Orchestre internazionali come l’Orchestra Filarmonica di Francoforte, l’ Orchestra Filarmonica Marchigiana, l’Orchestra del San Carlo di Napoli, la Shanghai Filarmomnica (Cina), l’Orchestra Sinfonica di Dubrovnik, l’Orchestra Sinfonica Rossini, la Kasugay Orchestra (Giappone) , l’Ensemble Concertant Frankfurt , l’Euregio Chamber Orchestra, La FPI orchestra, l’Orchestra Sinfonica Siciliana , Orchestra sinfonica di Sanremo ed Orchestra sinfonica di Cosenza, la Bilkent Simphony Orchestra etc. e con i seguenti musicisti e direttori d’orchestra: Alun Francis, Cristoph Mathias Mueller, Thomas Sanderling ( durante le Engadine Sommer Academy St.Moritz), Peter Eotvos ( presso la Eotvos Contemporary Academy Foundation di Budapest), Michel Brousseau, David Crescenzi, Andrea Battistoni, Mirca Rosciani , Michael Zukernik, Massimiliano Caldi, Manlio Benzi, Michael Zukernik.
Sono recentemente usciti nel mercato discografico un doppio Cd Decca con l’integrale dei concerti per pianoforte ed orchestra di J.S.Bach (BWV 1060-1065), un disco live con i preludi di Chopin op.28 per Onclassical ed un CD dedicato ai compositori cinesi per Naxos . Ha effettuato 28 registrazioni discografiche per varie etichette tra cui Naxos, Decca , Arts. mDG, Onclassical ed un recentissimo LP nel 2024 per Movimento Classical.
E’ stato invitato in giuria al concorso Ciaikowsky per giovani pianisti dove tra i vincitori figura anche il famoso pianista cinese Lang Lang e dal 2011 è direttore artistico dello storico concorso Coppa Pianisti di Osimo. Nel 2015 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria della città marchigiana.
Nel 2022 ha suonato il concerto in mi minore opera 11 di F.Chopin con la Bilkent Simphony Orchestra sotto la direzione di Cristoph Mathias Mueller per il Festival svizzero Murten Classic e nel 2023 il secondo concerto di S.Rachmaninov nel Festival di Osimo con il Direttore Massimiliano Caldi. Nel 2024 insieme al collega Manlio Benzi ed alla Form ha interpretato il concerto numero 1 op.1 in fa diesis minore di Rachmaninov suonando nei maggiori teatri storici della regione Marche incluso il teatro Pergolesi di Jesi.
Tra gli impegni di quest’anno c’è l’esecuzione del secondo concerto di Rachmaninov presso la sala grande della Filarmonica di Berlino con i Berliner Symphoniker il prossimo 19 Ottobre
( info su www.berliner-symphoniker.de/piano-forte/ ).
Alla sua intensa attività concertistica affianca quella didattica come docente di pianoforte principale presso il Conservatorio G.Rossini di Pesaro e tenendo alti corsi di perfezionamento in Cina ( Conservatorio di Shanghai), Svizzera (Disentis) e Polonia (Stettino Euro Art).
Gianluca Luisi è Boesendorfer artist.
F. Chopin (1801-1849): Dodici studi per pianoforte, op. 10
do maggiore: Allegro
1. la minore Allegro
2. mi maggiore: lento ma non troppo
3. do diesis minore: Presto
4. sol bemolle maggiore: Vivace
5. mi bemolle minore: Andante
6. do maggiore: Vivace
7. fa maggiore: Allegro
8. fa minore: Allegro molto agitato
9. la bemolle maggiore: Vivace assai
10. mi bemolle maggiore: Allegretto
11. do minore: Allegro con fuoco “La caduta di Varsavia
Quando Chopin giunse a Parigi, alla fine del settembre 1831, aveva probabilmente già quasi completato una serie di studi pianistici che sarebbero poi stati presto pubblicati (per Schlesinger, nel 1833) come Studi per pianoforte op. 10: aveva poco più di vent’anni, ma l’entità dell’opera testimoniava del valore ormai acclarato di un nuovo astro nascente, di un artista completo. L’intenzione – perfettamente realizzata – era quella di ottenere un’ideale fusione tra virtuosismo ed espressività poetica, tra tecnica e arte. Emblematicamente gli Studi vennero dedicati a Franz Liszt, amico di Chopin e autore a sua volta di altre importanti serie pianistiche. Un ulteriore termine di confronto veniva dal «divino Paganini», che al tempo andava infiammando le platee di mezza Europa con le sue funamboliche esibizioni violinistiche. L’idea era quella di trasferire, di travasare le scoperte tecniche di uno strumento duttile quanto il violino al pianoforte ricercandone le infinite possibilità, le intrinseche capacità tecniche e musicali. L’esito dell’uscita dell’op. 10 fu un successo, tanto che il cronista del giornale parigino «Le pianiste» scriveva entusiasta nel novembre del 1833 alla sua immaginaria lettrice: «Quando avrà letto questi Studi, quando li avrà lavorati, commentati, se avrà la fortuna di sentirli eseguiti dal suo autore le capiterà di riconoscerli appena. Cerchi il senso vero, scopra il canto, mirabile sempre, ma spesso celato all’evidenza. Questo giovane già all’esordio è al livello dei grandi maestri, e lei sa quanti pochi siano». La novità che si sprigionava da questa raccolta conquistò perciò subito i favori del pubblico e degli esperti. Lo stesso Liszt, onorato per la dedica attribuitagli, si ritirò per qualche tempo in modo da studiarli a fondo; quando ricomparve in pubblico dimostrò di padroneggiare così bene la raccolta da strappare a Chopin l’ammirata affermazione: «Vorrei proprio rubargli il modo di eseguire i miei Studi».
La struttura di questi brani brevi, concisi, ripercorre il classico schema tripartito: a un primo spunto tematico che propone un determinato problema tecnico-pianistico fa seguito una zona di elaborazione delle idee precedenti o anche un vero e proprio secondo motivo; il ritorno della prima idea conclude il brano, spesso esteso a una sezione di coda. La scelta dello Studio è originata dall’intento di risoluzione di una determinata finalità didattica: la figurazione difficile di cui il pianista deve impadronirsi viene ripetuta, sottoposta a eventuali varianti, trasportata in varie tonalità così da farla divenire cangiante all’ascolto e a un tempo permettere l’uso di tutta una serie di tattiche e accorgimenti tecnici della mano.
Nel primo Studio della serie, ambientato nella solare tonalità di do maggiore, si richiede un’adeguata capacità di arpeggio in posizione lata e notevole è l’affinità con il primo numero dei Capricci paganiniani, cui il brano si ispira. Non per nulla Chopin raccomandava agli allievi un’esecuzione quasi «a colpi d’arco» e una notevole plasticità nell’uso della mano, così ben espressa dal verbo francese èlargir, come richiedeva espressamente all’allieva M.me Müller.
Lo Studio n. 2 in la minore tocca un altro tòpos tecnico, quello della scala cromatica: l’aveva già affrontato, tra gli altri, Ignaz Moscheles nei suoi Studien für Pianoforte op. 70; ma quest’ultimo si era limitato a far eseguire la scala sulle dita più forti e sicure, le prime tre, mentre Chopin cerca la difficoltà scrivendo appositamente per le dita medio, anulare, mignolo della mano destra, costringendo l’esecutore a risolvere problemi di movimenti innaturali e di scavalcamenti continui. Va detto che, per evitare ogni fraintendimento, fu il compositore stesso a segnare di suo pugno nella bozza di stampa ben cinquecento indicazioni di diteggiatura!
Il terzo brano è un Lento ma non troppo in mi maggiore; non riguarda problemi particolari di velocità ma si dedica alla resa del cantabile attraverso un tema calmo e lirico, «la più bella melodia che Chopin avesse mai creato», come sosteneva l’allievo Adolf Gutmann. Questo tema dolce, dal sapore di Notturno si increspa appena nel suo prosieguo e solo nella parte centrale cambia volto, diviene agitato, è scosso nel profondo. Infine, come d’incanto, la velocità si attenua, il clima si ridistende, torna l’aura espressiva iniziale e il brano si spegne sereno come un pallido sole al tramonto.
Si comprende dunque come brusco sia il contrasto con lo Studio seguente, il n. 4 in do diesis minore: romantico, passionale, basato sulla sincronizzazione e sull’uguaglianza delle due mani, sul legato, sul lavoro del pollice sui tasti neri. Chopin lo sentiva direttamente collegato con lo Studio n. 3, tanto da scrivere al termine del precedente «Attacca il Presto con fuoco».
Anche lo Studio n. 5 in sol bemolle maggiore è molto veloce, ma di carattere diverso tanto che Liszt nella sua seconda edizione del libro dedicato a Chopin lo cita come «fantasia burlesca scoppiettante di brio» e ancora «improvvisazione piccante». Senso del gioco, ironia, leggerezza dunque lo dominano: nelle brillanti figurazioni pensate per i tasti neri del pianoforte, negli agili accordi della mano sinistra, nella ricerca di una scorrevolezza leggera e naturale.
Lo Studio n. 6 in mi bemolle minore abbandona il virtuosismo e passa ad aspetti squisitamente interpretativi: la necessità di sostenere con continuità una melodia lenta e rarefatta, l’ottenimento di un giusto equilibrio polifonico, un’adeguata restituzione del fraseggio. Lo domina un tema lirico, elegiaco che prosegue poi nella parte centrale sviluppato con accentuata espressività.
Il brano successivo, lo Studio n. 7 in do maggiore è fantasioso e toccatistico e riguarda il problema delle doppie note, eseguite per terze e seste parallele in elegante movimento ondeggiante alla mano destra mentre la sinistra contrappunta con brevi respiri melodici e appoggi armonici.
Nel n. 8 in fa maggiore si torna invece alla tecnica dell’arpeggio (già affrontata nello Studio n. 1) con lo scopo di rendere il polso elastico e le dita agili su continui movimenti laterali della mano; questa volta l’arpeggio è uno scintillante baluginìo sonoro e si presenta arricchito dall’inserzione di note di passaggio.
Dello stesso problema si occupa anche lo Studio n. 9 in fa minore, anche se le difficoltà passano ora alla mano sinistra: qui un tema triste e nostalgico è accompagnato dal fremente ribollire del basso; un motivo interrogante a note ribattute prende forma nella parte centrale e per un attimo interrompe l’ansia del tema principale che infine torna nella sezione di Ripresa ampliato da una dolcissima frase di coda.
Lo Studio n. 10 in la bemolle maggiore è un moto perpetuo di notevole difficoltà che richiede al pianista la difficile alternanza nella mano destra di nota singola suonata dal pollice con bicordo affidato alle dita indice-mignolo. L’effetto è di delicata leggiadria, ma l’esecuzione, estenuante, fece dire al grande pianista Hans von Bülow: «Chi riuscirà a suonare questo Studio in modo veramente perfetto, potrà felicitarsi per essere riuscito a raggiungere le più alte vette del Parnaso pianistico, perché esso è forse il più difficile della raccolta. Tutto il repertorio della musica pianistica, tranne Feux Follets di Liszt non contiene un esercizio di questo genere di perpetuum mobile così pieno di estro e di originalità».
Il penultimo della serie, lo Studio n. 11 in mi bemolle maggiore tratta ancora gli arpeggi, affidati contemporaneamente al gioco delle due mani in un’esecuzione di ardua asperità; proprio da essi, nella loro nota più alta, magicamente scaturisce una tenera melodia assai difficile da rendere se non si pratica un corretto fraseggio.
La raccolta si conclude con lo Studio n. 12 in do minore meglio noto come «La caduta di Varsavia», o anche, secondo gli appellativi coniati da Franz Liszt, «Studio della Rivoluzione» o «Il Rivoluzionario». Il biografo Karasowski narra che lo Studio nacque di getto, come segno di drammatica ribellione quando Chopin, trovatosi a Stoccarda, seppe della violenta presa della capitale polacca da parte delle truppe zariste (settembre 1831) e del conseguente fallimento dei moti nazionalistici in cui lui stesso aveva creduto e riposto speranze.
Sopra un turbinoso, incalzante movimento di semicrome ascendenti e discendenti della mano sinistra si staglia al canto un tema dolente ma perentorio, «eroico», fatto di enfatiche e lapidarie sentenze; l’ambientazione armonica cupa e tempestosa rimanda con l’immaginazione a eventi tragici, ma soprattutto la musica riflette uno stato d’animo, il moto interiore di un uomo avvilito, eppure non vinto. Circa vent’anni dopo, nel 1848, Chopin così scriveva a Julian Fontana a New York, dimostrando di non aver mai perso il proprio credo nazionale: «Il moscovita avrà del buon filo da torcere quando dovrà marciare contro il prussiano… Dovranno necessariamente verificarsi cose terribili, ma alla fine ci sarà una Polonia grande e gloriosa, in una parola “La Polonia”».
F.Chopin: Dodici studi per pianoforte, op. 25
1. la bemolle maggiore: Allegro sostenuto
2. fa minore: Presto
3. fa maggiore: Allegro
4. la minore: Agitato
5. mi minore: Vivace
6. sol diesis minore: Allegro
7. do diesis minore: Lento
8. re bemolle maggiore: Vivace
9. sol bemolle maggiore: Allegro assai
10. si minore: Allegro con fuoco
11. la minore: Lento. Allegro con brio
12. do minore: Molto allegro con fuoco
A partire dagli anni intorno al 1800 con il termine “Studio” si inizia generalmente a indicare un brano strumentale di dimensioni non molto ampie, interamente costruito intorno a una particolare difficoltà tecnica che, per l’appunto, ci si prefigge di superare. Da allora ogni strumento ha naturalmente sviluppato la sua propria letteratura del genere e in campo pianistico si parla quindi di Studi “per le ottave”, “per l’articolazione”, “per gli arpeggi” e così via. In realtà questa descrizione dello Studio può adattarsi benissimo anche a molti lavori strumentali nati già nel corso del Settecento caratterizzati dalle stesse finalità tecnico-pedagogiche ma indicati con altri nomi più generici: preludio, esercizio, lezione, capriccio, pezzo… Possono venire alla mente, ad esempio, molti dei Preludi di Bach e molte delle Sonate di Domenico Scarlatti, non dimenticando che le uniche 50 di queste ad essere pubblicate durante la vita dell’autore apparvero, nel 1738, con l’eloquente titolo di Essercizi per gravicembalo.
Inizialmente il termine di Studio viene usato più nell’accezione di “metodo”, di “corso di formazione”, come ad esempio nella Etude pour le Piano-Forte en quarante-huit Exercises dans tous les tons majeurs et mineurs concepita nel 1826 dal quindicenne Franz Liszt; opera che nella scelta tonale e numerica evidenzia la non piccola ambizione di ricollegarsi idealmente al grande modello bachiano del Clavicembalo ben temperato. Anche se questa ambizione rimane in realtà irrealizzata, i dodici Studi effettivamente licenziati dal giovane Liszt aprono una nuova era nella composizione pianistica. Intanto Liszt continua a lavorare a questo progetto e undici anni dopo, nel 1837, ne pubblica una nuova versione con il titolo di 24 Grandes Etudes pour le Piano. Ma in realtà gli Studi sono sempre e soltanto dodici e dodici restano anche in occasione della terza e definitiva rielaborazione portata a termine nel 1851, quando l’autore toglie definitivamente dal titolo ogni riferimento numerico per aggiungervi quell’aggettivo, “trascendentale”, che da allora individua il virtuosismo romantico: Etudes d’exécution transcendante.
A spingere Liszt a riprendere e rielaborare profondamente i suoi Studi del 1826 sono state probabilmente due forti esperienze musicali vissute all’inizio degli anni Trenta: l’incontro con il folgorante virtuosismo violinistico di Niccolo Paganini nel 1832 e quello con la musica del giovane Fryderyk Chopin e in particolare con i suoi Studi. Nel giugno del 1833 il compositore polacco, allora ventitreenne, aveva pubblicato a Parigi le 12 Etudes op. 10, significativamente dedicate «A son ami F. Liszt», seguite tre anni dopo da una seconda serie di altri dodici Studi, pubblicati poi nel 1837 come op. 25, dedicati questa volta «A Madame la Comtesse d’Agoult», che di Liszt era la compagna.
Chopin compone i suoi primi Studi, confluiti poi nell’op. 10, nell’autunno del 1829, a diciannove anni, come esercizi preparatori per aiutarsi a superare alcuni passaggi particolarmente ostici delle sue stesse composizioni di quel periodo. Indubbiamente anche per lui a fungere da detonatore in questa sfida a «tentare l’estremo» (come scrisse Schumann a proposito di Liszt) è stato l’incontro con Paganini, ascoltato più volte a Varsavia proprio nel corso di quello stesso 1829. Uno dei modelli ideali degli Studi chopiniani sono dunque i 24 Caprices op. 1 di Niccolo Paganini, composti intorno al 1805 ma pubblicati a Milano solamente nel 1820. L’altro, molto più che in Liszt, è proprio il Clavicembalo ben temperato di Bach, opera studiata e amata profondamente da Chopin fin dall’infanzia: è impossibile, ad esempio, non cogliere nello Studio in do maggiore che apre l’op. 10 chopiniana le suggestioni del Preludio in do maggiore con cui si apre il primo volume del Clavicembalo. E solo apparentemente Chopin sembra non preoccuparsi troppo dell’ordinamento tonale dei brani, problema fondamentale nella costruzione dell’opus magnum bachiano: certo egli lo fa in maniera assai diversa rispetto a chi lo aveva preceduto di oltre un secolo. Se nell’op. 10 quasi tutti gli Studi sono raccolti in coppie unite dal rapporto tonalità maggiore-relativa minore, nell’op. 25 questo si verifica una sola volta. Ciò non significa affatto che il problema dell’ordinamento tonale dei brani stia meno a cuore a Chopin, ma solo che egli sta cercando nuove vie. Come ha scritto Charles Rosen, nell’op. 25 egli dispone la serie perché funzioni «come un tutt’uno: ogni Studio successivo sembra sgorgare direttamente dal precedente. La tonalità di ciascuno è strettamente connessa a quella del seguente, con l’eccezione degli ultimi due in cui questo disegno si disgrega. In alcune occasioni, è impressionante il modo in cui la conclusione di uno Studio dà l’impressione di preparare l’attacco del successivo».
Negli Studi di Chopin, pagine chiave nella storia dell’evoluzione del linguaggio pianistico, la difficoltà tecnica e lo sforzo e la fatica necessari al suo superamento diventano manifestazione esteriore di una tensione e una sofferenza interiori. Ma al di là della tecnica e del virtuosismo puri, questi Studi si rivelano, anche grazie a diteggiature spesso ardite e sempre originali, straordinari saggi di ricerca sul timbro (massime l’op. 25 n. 1 e n. 6), sul tocco (op. 25 n. 4 e n. 5), sull’indipendenza ritmica (op. 25 n. 2)…
La struttura tipica di questi Studi è quella basata su un’unica idea tematica o figurazione musicale, e quindi su un’unica difficoltà tecnica (arpeggi, op. 25 n. 1; terze, op. 25 n. 6; seste, op. 25 n. 8…), che viene esposta inizialmente nella tonalità principale, poi trasportata in altre tonalità e infine ripresa nella tonalità d’impianto, ma in forma abbreviata e con un’eventuale coda.
Nell’op. 25 Chopin abbandona questa struttura solamente in due casi, costruiti nella tipica forma tripartita di canzone A-B-A’, in cui nella parte centrale si assiste alla comparsa di nuovo materiale tematico e a un cambiamento di tempo: ciò avviene nello Studio n. 5 in mi minore e nello Studio n. 10 in si minore che, non a caso, sono i due brani più ampi della raccolta, gli unici a superare le 100 battute. Comunque tutti e dodici sono pezzi brevi e talvolta brevissimi, con delle durate oscillanti fra il minuto circa dello Studio n. 8 in re bemolle maggiore, che conta appena 36 battute, e i quattro minuti e mezzo-cinque dello Studio n. 7 in do diesis minore.